Quando ballavo il flamenco

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Da bambino ero timidissimo, mi ricordo ancora il mio primo giorno di scuola. 30 ottobre 1969. Scuola elementare Dante Alighieri. Se De Amicis, non fosse stato De Amicis e fosse passato per caso lì, sarebbe diventato De Amicis. I banchi, di quelli con le sedie attaccate due a due e con il foro per l’inchiostro e il calamaio che io ho sempre pensato essere un calamaro, nella semplificazione della mia mente di bambino. Il grembiule, nero con il fiocco bianco, per noi maschietti e nero con il fiocco bianco anche per le femminucce. Tiè! Mica come quelli di Santa Giovanna Antida che avevano quel brutto grembiule blu con fiocco celeste per i maschietti e fiocco rosa per le femminucce.

Le stufe, di ghisa a legna e la legna ce la dovevamo portare noi. Le finestre, con le cornici in legno verde e dietro i monti innevati d’inverno e verdi in tarda primavera. Ancora non avevano inventato gli incendi boschivi. E poi i compagni di classe. Di tutte le taglie. Alti come pali da vitigno, almeno per me che ero piccolino, tondi tondi e coi rossi in faccia come le pesche degli alberi dei loro genitori contadini, piccoli più di me e scuretti come le nespole selvatiche. Io me li guardavo un po’ sofferente a causa delle cuciture interne dei miei pantaloni corti che mi arrossavano l’interno cosce. Soffrivo, cazzo, quanto!… la lacrimuccia faceva capolino dall’occhietto, ma io non volevo darlo a vedere.

Quindi sedevo al mio banco con il mio sconosciuto compagno di banco senza muovermi molto. Lui si chiamava Alvaro. E io già sapevo che era un tipo speciale. Primo, perché io mai e poi mai, ma dico veramente, avevo saputo che esistesse un nome come ALVARO. La prima cosa che imparai a scuola è che esiste un nome che si chiama ALVARO. In effetti pensavo che esistesse solo quello di ALVARO. Naaaaa, non esistevano altri ALVARO. Io avevo il solo esemplare di ALVARO esistente sulla faccia della terra seduto al mio stesso banco coi sedili attaccati e il buco per il calamaro.

Ma perché quei bimbi venuti prima di me, quando quei banchi erano più nuovi, dovessero scrivere con un calamaro mi è sempre sfuggito.

Non l’ho mai chiesto alla maestra Tavoletta. Beh? Sì, si chiamava così. Pensa quando si presenta. Ciao bambini, anzi buongiorno bambini. Io sono la Tavoletta. Proprio tavoletta non sembrava, aveva una certa pancia. Comunque, dove ero capitato? In un posto dove si scriveva coi calamari, c’era l’unico ALVARO sulla faccia della terra e per maestra avevo una Tavoletta.

Niente male come inizio.

Poi Alvaro sapeva disegnare benissimo. Ed era biondo. Scoprii in seguito che le due cose non sono necessariamente collegate, ma a me quella immagine di uno che sa disegnare bene ed è biondo mi colpì. Io ero moro come Calimero e non sapevo disegnare come lui, anche se a detta di mamma e papà che come si sa sono sempre obiettivi con le qualità dei propri pargoli, Cimabue al mio confronto era un cubista dilettante e non per scelta. Lo so che Alvaro sapeva disegnare bene perché fece sul foglio di carta un bambi che faceva le uova. In effetti erano due disegni separati, ma io in quel momento interpretai come un bambi che faceva le uova. Glielo feci notare con grande discrezione, lui mi guardò e disse, “guarda sono due fogli separati”. Ma non infierì. Avevo imparato qualcosa. La scuola aveva già cominciato a svolgere la sua funzione educativa, ancor prima che la Tavoletta cominciasse a farci la prima lezione.

Arriva il momento dell’appello: dei genitori. Sì, perché al nome del bimbo seguiva la domanda: e papà e mamma che fanno? Non ho mai capito perché ai maestri e ai professori nell’ottobre del 1969 interessasse far sapere a tutti in classe che piffero facessero le mamme e i papà di tutti. Boh, alla fine io non sapevo più se ero in classe con Francesca di 6 anni o con suo padre macellaio di 39. Con Agnese di anni 27, portantina all’ospedale provinciale o con Mariuccio, suo figlio di 5 anni e mezzo, che voleva fare l’astronauta. Mi si confondevano sempre di più le idee.

Anni dopo capì che il mondo va così, c’è un appello ma a rispondere spesso non sono i diretti interessati, ma mamma e papà. Molto più spesso PAPA’. Ma allora mi sfuggiva la grammatica della cosa.

Passano i giorni, io ero riuscito ad ottenere di cambiare negozio di vestiti. Qualcosa dentro me mi suggeriva di lottare per questo. Non so perché ogni volta che mi compravano un pantalone alla boutique del bimbo, ebbene sì, i miei ci avevano i soldi, questo dovesse arrossarmi l’interno coscia con le sue cuciture. Era la marca, evidentemente, ma anche la testardaggine di mia madre che voleva mi vestissi di quella marca. Finalmente, si cambia. E io scopro che esistono anche interno coscia non arrossate e che potevano appartenere a me.

La cosa mi cambia il carattere, potevo muovermi, potevo correre, giocare, addirittura salire sul banco del calamaro e ballare il flamenco, appena la Tavoletta si distraeva un attimo. Ebbene sì, io salìì sul banco e ballai il flamenco. Lo avevo visto in tv. Mi era piaciuto. Salìì sul banco e ballai il flamenco sotto gli occhi divertiti di tutti i miei compagni di classe. Le bambine già morivano per me. Fu un trionfo. Il mio Flamenco. Mi veniva addirittura richiesto.

Nella vita non ho mai più ballato il flamenco una volta lasciate le elementari. Si sa, crescendo si disimpara, si dimentica tutto quello che sappiamo fare. 

Ma la cosa buffa di tutta questa storia è che mai e poi mai in 5 anni di elementari le mie incursioni di flamenco sui banchi anche nelle altre classi mi hanno procurato una nota o un richiamo. Probabilmente perché all’appello il primo giorno risposi Dottore. Ma forse è solo una malignità. Però il giorno in cui spiegai alla classe che l’ape entra nel fiore e fa nascere il frutto, allora sì, che mi mandarono dal direttore e chiamarono mio padre.

Ma ‘sti cazzo de calamari sui banchi manco ho capito mai che ci facevano. Mica si può capire tutto nella vita.

CERTE STORIE
di Riccardo Loffredo